Marco e Marc che bello sarebbe stato vedervi lottare in pista

Sono passati due anni da quella maledetta domenica mattina in cui Marco Simoncelli, lottando fino alla fine per tenere in pista la sua Honda, ci ha lasciato. Ma nessuno può dimenticare il suo sorriso e il suo talento. L’unico rimpianto resta non averlo qui a battagliare con Marc Marquez e Jorge Lorenzo, perché ci sarebbe stato… di sicuro.

Quando vedi Marc Marquez fare “il pazzo”, non risparmiandosi entrate e spallate d’altri tempi, il paragone è un lampo che ti trafigge il cuore e corre a al nostro Marco. Il Sic che buttava sempre il cuore oltre l’ostacolo, e che per aver buttato fuori Pedrosa e Lorenzo, anche in 250, era odiato dagli spagnoli; che lo temevano come il futuro che avanzava, con un sorriso sornione e la stazza da caterpillar, capace di spazzare via le certezze dei due esili spagnoli, che stanno dominando in lungo e in largo. Aveva l’handicap del peso, alto e robusto com’era, ma non si è mai arreso allo strapotere degli altri.

E’ per questo che ci manca, perché lottava, s’incazzava, ma non ha mai smesso di sorridere fino all’ultimo. E siamo certi che con il numero 93 di Marquez e il 58 di Marco in pista ne avremmo viste di scintille, di carenate, di battaglie epiche, ma senza storie e con grossi sorrisi alla fine… Certo, anche con qualche gestaccio. Marco e Marc non si sono incrociati se non nel paddock probabilmente, ma sarebbero stati una bella bega l’uno per l’altro. Oltre che per Valentino Rossi che con il Sic probabilmente si sarebbe giocato spesso il podio.

Sono già andati via due anni, ma quella mattina, quel dolore è ancora vivo in ogni appassionato che ha visto sorridere Marco e quella mattina era sveglio per vedere la sua gara. E’ vivo ogni qualvolta un pilota cade e nella mente si fa spazio nuovamente quella paura, il terrore che ci ha fatto rivivere purtroppo il povero Antonelli, il terrore che gli amanti delle moto conoscono bene, ma sanno mettere da parte una volta allacciato il casco e saliti in sella.

L’affetto e le emozioni suscitate da Sic, dal suo numero 58, dalla sua famiglia, sono la dimostrazione che essere “veri” è un valore che buca lo schermo, arrivando fin nel profondo di tante tante persone. Marco ci ha lasciato questo messaggio, che in una società spesso cieca e capace di premiare chi inganna, deve restare come una bussola per i giovani e per tutti noi: sorridenti sempre, autentici altrettanto sempre. Ciao Marco e grazie per le emozioni che ci hai dato, fino alla fine, fino a quando il tuo talento è diventato straniero alla terra.

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Milan: Tra infortuni, modulo e mercato qualcosa non torna

Una vittoria, una sconfitta e un pareggio. E’ questo il magro bottino del Milan in questo avvio di campionato: certo, siamo ancora ancora alle battute iniziali, per cui “sparare” sentenze adesso sarebbe superficiale oltre che sbagliato. D’altronde l’epilogo della scorsa stagione è lì a fare da monito. L’ inizio zoppicante dei rossoneri, però, è sintomo di qualcosa che non va; sono tre i fattori che a nostro giudizio vanno analizzati con particolare attenzione: infortuni, modulo e mercato.

Allarme infortuni. Se c’è un elemento che accomuna le quattro stagioni di Allegri al Milan, è quello legato al capitolo infortuni. Nella sua esperienza rossonera, infatti, il tecnico toscano non è mai riuscito a trovare una soluzione soddisfacente a questo handicap. Anche quest’anno il problema si è ripresentato puntuale come un orologio svizzero: sono già 10 gli infortunati in casa Milan, praticamente un’intera formazione. Sul banco degli imputati è finito chiaramente Allegri, che dalla sua ha la scusante di aver dovuto preparare in fretta e furia la squadra in vista del preliminare di Champions. Sta di fatto che l’infermeria rossonera è stracolma: out Abate, De Sciglio, Bonera e Silvestre, il reparto difensivo è ridotto all’osso; fuori anche Montolivo, Poli, kakà, Niang, El Shaarawy e il lungodegente Pazzini. Gestire una situazione del genere, in un periodo in cui con l’inizio della Champions il Milan giocherà ogni tre giorni, per Allegri sarà estremamente difficile.

Modulo. Ma abbandonare il 4-3-3 era strettamente necessario? Il ritorno al 4-3-1-2 è davvero la soluzione a tutti i problemi? Sono questi gli interrogativi che si stanno ponendo i tifosi rossoneri dopo aver assistito all’orrenda partita di Torino. Contro i granata si è vista una squadra spaesata, senza voglia, compassata e che ha dimostrato di non aver ancora assimilato il nuovo schema tanto caro ad Allegri. Inoltre, il modulo col trequartista – secondo il tecnico toscano – avrebbe dovuto portare maggiore equilibrio, ma i numeri dicono che le reti incassate dal Milan nelle prime tre giornate di campionato sono già 5. Troppe per una squadra che punta alle zone alte della classifica. Inoltre, con il 4-3-1-2, giocatori come Niang ed El Shaarawy, che prediligono partire larghi e che l’anno scorso sono stati grandi protagonisti, rischiano di essere sacrificati e di guardare giocare i loro compagni dalla panchina. La sensazione è bisogna rivedere qualcosa.

Mercato. Tra i tifosi, ha fatto molto discutere la decisione della società rossonera di cedere Boateng per riacquistare un giocatore (Kakà) che in molti considerano sul viale del tramonto. Sicuramente il ritorno del brasiliano ha scaldato il cuore di molti nostalgici, ma si sa che alla fine ciò che contano sono i risultati. Ed è per questo che il numero 22 rossonero dovrà trovare in fretta la forma migliore (a proposito, l’infortunio all’adduttore complicherà le cose), altrimenti San Siro non gli risparmierà i suoi fischi. Ciò che comunque ha lasciato tutti perplessi, è stata la decisione della dirigenza di non rinforzare la difesa, punto debole della rosa. Checché ne dica Galliani, il reparto arretrato del Milan è piuttosto ballerino e non dà l’impressione di essere affidabile. Basta dare un’occhiata alla dinamica dei gol incassati dal Milan in queste prime uscite stagionali. Probabilmente, un difensore centrale di un certo spessore avrebbe fatto comodo ad Allegri, che adesso dovrà fare di necessità virtù.

La buona notizia, per il Milan e i suoi tifosi, è che la stagione è appena iniziata, per cui è possibile rimediare a quanto visto fin’ora. E’ chiaro però che serve il sacrificio di tutti.

 

Juventus: come l’anno scorso a Milano e a Roma, ma con un Tevez in più…

Ritmi bassi, un po’ di stanchezza, le nazionali e la Champions di mezzo. Un copione già visto lo scorso anno, in due occasioni in particolare: le trasferte a Milano contro il Milan e all’Olimpico contro la Roma. Allora la Juve tornò a casa con 0 punti e tanti dubbi sulla possibilità di reggere il doppio impegno.

La Juventus vista ieri pomeriggio contro l’Inter è sembrata per larghi tratti simile a quella vista nelle due partite citate in precedenza. Squadra stanca e spezzata in due in alcune fasi del gioco, ritmi blandi e l’assenza della solita cattiveria. Ci è mancato poco di rimetterci di nuovo le penne. Invece, la compagine di Antonio Conte è tornata a casa con un punto e rischiando persino di vincere nel finale di gara.

Ci sono un paio di differenze tra la Juve di quest’anno e quella della passata stagione. Potremmo analizzare il sistema di gioco sempre più collaudato o la definitiva affermazione di Vidal come campione assoluto. Oppure parlare di una squadra ormai matura a tutti gli effetti, in grado di gestire al meglio anche le situazioni difficili, come può essere andare in svantaggio a San Siro contro l’Inter. Ma la principale differenza rispetto alla passata stagione è la presenza in campo di un leader tecnico ed emotivo. Stiamo parlando ovviamente di Carlos Tevez.

L’Apache è stato il fiore all’occhiello della campagna acquisti bianconera. La sua capacità di integrarsi immediatamente negli schemi e nella mentalità della Juve di Conte ha sorpreso anche i più ottimisti. Nella partita di ieri non si è limitato ad impensierire la difesa nerazzurra con la sua velocità e la sua capacità tecnica. Al contrario il suo apporto è stato ancora più importante in fase di non possesso. Per tutta la durata dell’incontro gli abbiamo visto rincorrere gli avversari a destra e a sinistra, senza palesare la benchè minima stanchezza sul finire del match. La reazione bianconera dopo il gol di Icardi è stata guidata da lui. Ha addirittura sfiorato la rete del sorpasso poco dopo il pareggio di Vidal ed ha fornito uno splendido assist, proprio per il cileno, qualche minuto più tardi. Solo una bella parata di Handanovic ha negato ai bianconeri la gioia del 2-1.

La sua mentalità vincente sta giovando a tutta la squadra. Tevez è quel campione in grado di cambiare l’inerzia di un incontro in qualsiasi momento. È evidente come la Juve non possa sempre andare a mille all’ora ed essere brillante, specie quando di mezzo ci sono gli impegni delle nazionali e la Champions League. Partite giocate non al meglio capiteranno ancora di qui alla fine del campionato. Ma a differenza della passata stagione, i bianconeri potranno anche permettersi di giocare male e vincere lo stesso. Tevez dà questa opportunità. Lo ha fatto spesso al Manchester City e sembra avviato ad interpretare lo stesso ruolo con la maglia della Juventus. Ecco perchè il copione di ieri sera lo abbiamo già visto, il finale, però, non è lo stesso. Come a Milano e a Roma, ma con un Tevez in più.

Roma: fermate il Mondo, Osvaldo e Sabatini, voglio scendere

In principio fu Borini, poi Marquinhos, ora tocca ad Osvaldo al Southampton, poi a Lamela o Pjanic al Tottenham; la Roma di Sabatini e degli americani assomiglia sempre più a un supermarket, anziché ad un top club.

Vi prego fermate il mondo voglio scendere davanti a questo calciomercato giallorosso. Non mi scandalizza la Juventus a Trigoria, né i tifosi contro Osvaldo, ma l’atteggiamento di Sabatini nella parte del giustiziere a mo’ di Walker Texas Ranger e di Pallotta nella parte dell’avaro riccone. La Roma a parole è un grande club, nei fatti deve ripianare il bilancio e privarsi dei campioni che fanno un top club europeo tale. Se poi non c’è la scusa del bilancio, beh ci sono le questioni personali, i duelli da farwest. Borini venduto perché voleva essere tutto giallorosso, cosa intollerabile per Sabatini e via l’attaccante più adatto per il modulo di Zeman; in compenso si comprano Tachtsidis, Piris, Dodò e altri optional per la panchina dell’Olimpico, che probabilmente mai avremmo voluto vedere con la nostra maglia.

Si apre il calciomercato e via Marquinhos, 35 milioni offerta irrifiutabile; come se la difesa dello scorso anno fosse stata già così forte, che anche senza il suo pezzo pregiato sarebbe  stata in grado di reggere il nuovo campionato… Agosto passa con TV e giornali, ancor più della maggioranza dei tifosi giallorossi, a sparare su Osvaldo e Lamela; sempre cedibili, sempre con le valige in mano. Rudi Garcia “tiene” con garbo l’italo-argentino, blinda Pjanic e fa prendere l’incognita Gervinho liberando di fatto Lamela per altri 35 milioni che dovrebbero arrivare dal Tottenham, in attesa dell’affare Bale.

Atteggiamento da grande squadra? Ma dove? Più che altro atteggiamento da deboli e influenzabili, da “vendicatori” incapaci di gestire situazioni e placare gli animi. Così tra poche ore Osvaldo sarà un giocatore del Southampton e la Roma resterà in avanti con Totti, nulla da eccepire; Destro in convalescenza e senza una data chiara per un rientro e un ritorno ai tempi di Siena; Lamela possibile partente per fare ulteriore cassa; Tallo e Caprari giovani e promettenti, ma incapaci di cambiare da soli una partita o dare un apporto di esperienza alla squadra; Gervinho che dopo il nulla londinese deve dimostrare effettivamente in Italia cosa può fare, con la piena fiducia di Rudi Garcia a coccolarlo e incoraggiarlo. Insomma, in attacco ci si affida al Capitano, unica certezza, e se si fa male, soffrisse la fatica o non trovasse la vena del goal degli ultimi campionati, vorrei sapere per Sabatini & co. chi farà i goal giallorossi.

Arriverà qualcuno. Certo… Bueno, l’uruguayano no, escluso. Qualcuno dice Matri o Quagliarella dopo il favore alla Juventus, nomi degni di sostituire Osvaldo? Capaci di segnare quanto Osvaldo? Ci sono alternative, Osvaldo era da cacciare dicono in tanti… Chi, dove, come?! Chi sono queste alternative che la Roma “senza spendere”, visto che si vende per ripianare il bilancio, può prendere? Hernandez dal Palermo, il pallino di Sabatini o qualche altra incognita sud americana?

Sabatini e il gruppo dirigente giallorosso, adesso che la chioccia Baldini è andata via, sembrano i dirigenti di una squadra di medio-bassa classifica: pensano prima a vendere e poi ai risultati; non sanno gestire le tensioni che in un gruppo di campioni e di puro sangue si possono creare. Chi ricorda Capello e Spalletti? Quante volte hanno preso di petto la piazza e calmato gli animi? Quante volte Montali con le sue doti umane ha calmato l’ambiente interno ed esterno?

Oggi a gestire le relazioni nella società e nello spogliatoio non c’è nessuno. E potrà anche partire Osvaldo, ma poi arriverà il momento di De Rossi, poi di Burdisso, poi di Pjanic e presto anche di Strootman: tutti campioni che in quanto tali non accettano di perdere e se lo sentono dicono quello che pensano, senza filtri e senza paura, come è giusto aspettarsi da un campione che ama la propria squadra e tiene alla propria carriera. E chi gestirà queste crisi? Rudi Garcia solo contro tutti? Probabile… Altrimenti, altro giro altra svendita, via altri campioni, in attesa di un miracolo o semplicemente di un dirigente capace di gestire un gruppo e le diverse anime che in esso albergano. Perché solo così poi si può parlare di squadra… non giocando con le figurine, nel regno delle sliding doors, dove non importa quanto sei forte; tanto hai sempre un cartellino addosso con un prezzo e basta un mugugno dell’ultimo curvaiolo depresso per farti fare la valigia.

Resto romanista perché la Roma non si discute, si ama… ma i dirigenti quelli forse è bene “discuterli” e non sempre difenderli, altrimenti non ci lamentiamo della politica italiana, se nella nostra squadra accettiamo sempre la linea del Vox populi, vox dei. I dirigenti sono qui, nelle società sportive o meno, proprio per tutelare l’azienda e le sue componenti e al contempo creare un terreno di relazioni e interazioni con l’esterno, tale da far crescere la società e lasciarne tranquilli i “dipendenti”.

Da Marco ad Andrea le emozioni restano sempre estreme

Quando compri una moto, qualsiasi, fosse anche un cinquantino, la compri più per far vedere di essere uno tosto più per il piacere di guidarla… Anche perché se ancora non hai mai guidato una moto non sai se ti piace o meno, ad essere realistici (no?!). Poi, solo dopo arriva la passione, quella che trovi innata e sprezzante nei piloti professionisti.

Quando sali sulla moto, che sia la prima o millesima volta non pensi di morire, non pensi che il casco e la tuta di pelle servono per proteggerti dalla morte, quella è solo la scusa per comprarli spendendoci un patrimonio, li hai comprati come piacciono a te: belli, brillanti, per essere unico, “fuori dalla norma”.

Proprio questo voler essere sempre un passo avanti, sempre oltre qualche soglia, segna la differenza tra un appassionato di moto e uno di un altro sport. C’è chi preferisce la moto alla fidanzata, chi invece si innamora sempre di quella nuova, chi la guida per goduria, chi la porta in pista per vincere sugli amici, chi invece ci corre davvero, che se ti capita davanti in pista ti accorgi di essere un impedito e lo guardi con ammirazione. Questo è il mondo normale di chi va in moto da 15 ai 90 anni le emozioni, le sensazioni si alternano, ma sono queste, anche quando vai ad andatura turistica e guardi il mare da una stradina tutta curve.

Poi ti svegli una mattina di ottobre ti metti davanti alla TV e vedi quel gigante buffo che cade e non si rialza. Marco ha lasciato una tacca sul cuore di tutti i motociclisti e la seconda tacca la lascia oggi Andrea. Già, nomi comuni i loro, come quelli di qualche amico che la vita l’ha persa sulla strada per eccesso di confidenza, oppure, per imperizia di qualcun altro. Dal 23 ottobre ad oggi, sinceramente, ho cambiato il modo di guardare le corse in TV: ho paura. Ogni eccesso, ogni caduta, ogni rischio mi riportano alla mente un frame di quella dannata domenica di Sepang.

Oggi sotto quella burrasca russa non si doveva correre, e non perché si parla dopo o si è dei cacasotto, semplicemente perché non c’erano le condizioni per correre, perché sotto quel diluvio Rossi, Marquez, Lorenzo e Pedrosa (che corrono fratturati) e lo stesso Crutchlow (che potremmo soprannominare Wolverine) trovandosi in testa avrebbero alzato la manina e ciao Gran Premio: un primo posto, una vittoria non valgono una vita.

Invece, la Superstock e la Superbike corrono e rischiano in una pista in cui la Moto GP non corre, perché non ci sono le condizioni di sicurezza tali da portare lì il motomondiale; eppure, la ART di Espargaro che è forse più lenta dell’Aprilia ufficiale di Giugliano corre in Moto GP: quindi, che differenza c’è? Perché la Superbike e la Superstock erano lì oggi? Perché nessuno ha voluto fermare lo show dopo quanto successo stamattina in Superbike?

Sponsor e soldi certo… Come se per andare forte ce ne fosse bisogno. Nessuno di noi che ha usato una moto “carenata” ha mai avuto sponsor e soldi per tirarle il collo oltre i 220 Km/h e vedere la strada prendere uno strano effetto stereoscopico. Forse dovrebbero ricordarlo piloti ed organizzatori, il piacere di guidare per guidare, per andare forte serve lo stomaco, il manico e un pizzico di follia, quindi, quando si va oltre il pizzico si chiude la porta del box e si aspettano condizioni migliori o si va a casa, tirando le orecchie a qualche pilota scriteriato che vorrebbe correre lo stesso, in preda alla sua sindrome da superman.

Non si fa correre un pilota incapace di capire se ha colpito un altro uomo o una moto a causa della nube d’acqua sollevata in rettilineo. Non si fanno correre uomini, trattati come fantocci, che non possono avere la capacità di sfilare un compagno che “rompe” davanti e si ferma; perché Andrea è morto per questo… non per Zanetti, è morto per aver colpito in pieno un altro pilota, che con la moto in panne è rimasto a centro pista e che lui non ha visto per la nuvola d’acqua e non ha potuto nemmeno provare a schivare o prepararsi all’impatto in qualche modo. La morte è arrivata lì.

Marco è morto tentando di tenere la sua moto in piedi, in qualche modo consapevolmente e voglioso fino alla fine di correre, di arrivare… Andrea, invece, non sa perché è morto, perché non ha potuto scegliere. Ecco, forse la sicurezza in pista sarebbe anche solo avere l’opportunità di scegliere, di avere un istante per decidere cosa fare della propria vita, di avere condizioni tali che consentano a commissari e piloti di vedere quanto succede in pista davanti a loro. Perché oggi, probabilmente, nemmeno i medici che hanno soccorso Andrea, che erano lì a pochi metri, hanno capito la dinamica dell’impatto e le conseguenti modalità d’intervento.

Il rischio morte non si può escludere dalla pista, come dalla nostra vita, ma almeno lì che ci sia un livello di attenzione più alto e di tolleranza zero per le follie. E se Mosca, Laguna Seca e altre piste per diversi motivi non sono “sicure”, che si resti a casa; che i piloti in prima persona dicano basta. Se io stasera guarderò la gara di Laguna Seca? Sì. Con Marco e Andrea nel cuore e col terrore che se qualcuno cade al cavatappi, con una rottura come quella dello scorso anno di Ben Spies, i rischi sono troppi e facilmente prevedibili, perché c’è un muretto, perché c’è un eccesso di rischio, che non so quanto sia tollerabile tutto questo in Mondo fatto di decimi, di perfezione, di cura maniacale.

Andrea Antonelli sul suo profilo Twitter poche ore fa, attimi prima di partire, aveva scritto: “osserverò attentamente e imparerò velocemente“. Ecco Andrea non ha potuto osservare attentamente e non ha potuto imparare, forse è ora che siano gli altri adesso a non perdere l’occasione, a guardare attentamente e imparare velocemente, che nel mondo in cui un bullone più stretto di un niente fa la differenza, è ancora più importante che gli aspetti importanti ed evidenti non vengano snobbati, come se si corresse col salame sugli occhi. Lo dobbiamo tutti a Marco, ad Andrea e a tutti quei ragazzi che su una moto hanno perso la vita; diamo un buon esempio, di cura ed attenzione che prevarichi anche la voglia e il coraggio del pilota, per imparare tutti, che spesso rinunciare ad un successo, a qualcosa d’importante, può essere giusto e farci sorridere insieme.

Ciao Andrea e dai un abbraccio a Marco da parte nostra…

 

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Cinema & Sport: La saga di Rocky Balboa, come l’americanismo ha trasformato la nobile arte in prodotto di largo consumo

Per rendersi conto di quanto devastante sia l’effetto della saga cinematografica di Rocky Balboa, basta entrare in tante palestre, sedersi in un angolo e concentrarsi su ciò che dicono e ascoltano tanti aspiranti pugili. Le orecchie di un osservatore esterno saranno così scosse dal motto “non fa male,non fa male” e dal brano incitatorio “Eyes of the tiger”, meglio noto come “la canzone di Rocky”. Due elementi che hanno contribuito al successo di Sylvester Stallone, l’attore dalla mandibola d’acciaio che ha interpretato il pugile italo-americano Rocky Balboa.

Dal punto di vista estetico e culturale, i sei film della saga cosa ci hanno fatto vedere? Di cosa hanno parlato? Cosa sono stati in grado di costruire ? Questione di gusto a parte, l’epopea stalloniana è viva nelle mente di tanti ragazzi e signori. Cinematograficamente discorrendo, esistono film sulla boxe qualitativamente superiori, ma a Stallone e ai produttori questa inferiorità non interessa. Con sei film hanno raggiunto il successo, costruendo con perspicacia l’icona di un uomo rispettato ed imitato e di una nazione che si elevava a modello di coraggio e bontà.

Dal primo episodio (1976) diretto da J.Avildsen e premiato con l’Oscar per il miglior film (Irwin Winkler e Robert Chartoff),la migliore regia e il miglior montaggio (Richard Halsey e Scott Conrad) sino all’ ultimo del 2006, ho assistito alla scultura di un superuomo, che da povero diventa ricco e adorato grazie alla boxe, circondato da una moglie paziente (Adriana alias Talia Shire), da un allenatore affettuoso (Mickey alias Burgess Meredith), da un cognato imbranato (Paulie alias Burt Young) e da un figlio che prima vuole emularne la dote pugilistica e poi sopravvivere senza sentire il peso del padre.

Nel corso della lavorazione, ho visto il protagonista faticare, ferirsi, vincere, perdere, riscattarsi (seguendo il trito e ritrito schema hollywoodiano della seconda possibilità), ammalarsi, battersi contro Apollo Creed, diventarne amico e consigliere,allenare un suo ipotetico erede, dissanguare contro Clubber e Ivan Drago (altro omone specializzato in film d’azione e di muscoli) ed elevarsi, dopo la vittoria sul russo, a finto mediatore pacifista tra l’ America e l’ Unione sovietica (frivolo il suo discorso: “se io posso cambiare, voi potete cambiare, tutto il mondo può cambiare”).

Sei film studiati a tavolino per vendere un prodotto e sperare che sia consumato su larga scala (questo è davvero accaduto).Più che opera d’arte,commercializzazione dell’arte. Stallone e produttori hanno realizzato un obiettivo. La loro propaganda è stata efficacissima, anche se ha sporcato un’arte nobile. Hanno fatto di un uomo proveniente dalle classi più disagiate e di un attore modesto (che qualcuno ha accostato a Marlon Brando) un modello di cieco patriottismo, infarcendo le sceneggiature di frasi ovvie e ad effetto, di corpi palestrati e sanguinanti disposti a spegnarsi e di combattimenti elettrizzanti. Tutto si rapporta allo stile di vita all’americana tanto citato: padre di famiglia diligente, uomo forte e resistente, bandiera a stella e strisce come esempio di civiltà da innalzare in faccia ai cattivi. Perché i cattivi, che storicamente hanno commesso reali disumanità, sono sempre e solo gli altri.

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Sport e Cinema, Invictus: quando lo sport è socialmente utile (video)

Forse non si tratta tanto di un elemento autobiografico,quanto di una forma di penitenza che mi sono imposto per tutti i film western che ho realizzato in passato. Il personaggio di William Munny (Gli Spietati n.d.r) rappresenta certamente un individuo alla ricerca di una redenzione per ciò che ha combinato nella sua vita passata e infatti continua a ripetere: “non sono più lo stesso uomo,sono cambiato””.

La dichiarazione è stata pronunciata da Clint Eastwood, l’ex giustiziere e dallo sguardo ghiacciato. L’ attore americano e di destra, scoperto e rivitalizzato da Sergio Leone, ha vomitato buona parte del cibo che lo ha aiutato a crescere. E’ diventato un regista essenziale e versatile, ha messo i suoi attori in sfida con la dimensione più tragica delle loro esistenze, chiedendo incomprensibilmente scusa per il suo passato filmico. Eppure, se non ci fossero stati il sigaro, la pistola e il poncho, non sarebbe mai diventato uno dei più grandi.

Qualche anno fa, a proposito di nomi altisonanti, ha realizzato “Invictus”. Protagonista Nelson Mandela/Morgan Freeman, l’uomo ingiustamente rinchiuso in cella per razzismo, diventato poi Presidente del Sudafrica. Se cercate una denuncia sociale, vi conviene cambiare film, perché Clint Eastwood ha voluto narrare altro. La figura del leader è stata funzionale ad un’ altra missione. Mandela, ottenuto il potere, non ha scelto la vendetta, ma la comprensione e la generosità. Invece di mandare al macello i bianchi, si è battuto affinchè convivessero con la comunità nera, grazie ad uno sport: il rugby, lo sport animalesco giocato da galantuomini.

Il film, infatti, ha come tema principale il mondiale del 1995, vinto dagli Springboks, la nazionale sudafricana. Dapprima detestati e sottovalutati, gli uomini del capitano Peenar finiscono festeggiando uno storico successo. Atleti e al tempo stesso simbolo di coesione sociale. Il capitano sudafricano, un bianco interpretato dal dinamico Matt Damon, si confronta con Mandela, sprona i suoi compagni e si eleva anche lui al ruolo di leader. Intuisce che la questione non è solo sportiva, ma anche e soprattutto sociale. Bianchi e neri, in nome di una passione, possono finalmente rispettarsi.

Clint Eastwood è registicamente eclettico. Non si accontenta di storie di sangue e vendetta e sceglie pure quelle sui buoni sentimenti. In “Invictus” la tensione emotiva è calante, la retorica incalzante e la poeticità, espressa dall’annunciazione di versi vittoriani, commovente. Clint è inoltre un ottimo direttore d’attori. Damon e Freeman lo hanno capito immediatamente e non hanno deluso. Due prove, due gestualità incisive.

“Invictus” è una “finzione” dai significati autentici e imitabili, uno dei pochi esempi di come lo sport possa essere un valore non economico, ma un fazzoletto bianco con il quale asciugare i dissapori durati per decenni.

httpv://www.youtube.com/watch?v=O0xQmUOCf9Y

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Il video della settimana: Del Piero come Gattuso? Al Sidney già allena [video]

Una nuova scuola di allenatori è all’orizzonte. Molti reduci dal Mondiale 2006 stanno imparando il mestiere. C’è chi come Fabio Grosso frequenta i corsi di Coverciano, altri come Pippo Inzaghi allenano gli Allievi Nazionali del Milan. Poi c’è l’esperienza sui generis di Gennaro Gattuso, nuovo allenatore-giocatore del Syon. Una scuola di campioni, dunque, e di futuri maghi della panchina. C’è da scommettere sulla conoscenza calcistica di questi giovani aspiranti mister. Certamente non gli manca l’esperienza, avendo vinto qualsiasi trofeo a livello nazionale e non.

L’ultimo di questa lista è Alessandro Del Piero. Vi chiederete come sia possibile. L’avete visto regalare ancora magie con la maglia del Sydney F.C. Ma l’ex giocatore bianconero non si limita a dare il proprio contributo sul campo. Uno dei motivi per cui ha scelto l’esperienza australiana è proprio la possibilità di insegnare calcio in un continente dove è uno sport poco praticato. Sono altre le passioni australiane, specie il rugby, il cricket ed il tennis. Del Piero è un simbolo del calcio a livello universale, potrebbe essere da esempio in tutte le parti del globo.

Di esempio lo è di certo per i giocatori del Sydney. Ecco che allora lo vediamo protagonista di un simpatico video dove è intento a spiegare alcuni situazioni tattiche nello spogliatoio del team australiano. Si vede Pinturicchio mostrare alcuni movimenti ai propri compagni di squadra, dimostrando carisma e movenze già da allenatore. Deve essere scomoda la presenza di uno come Del Piero per il mister della squadra australiana! Chissà che in futuro l’ex numero 10 bianconero possa davvero percorrere questo tipo di carriera, magari sostituendo Antonio Conte sulla panchina della Juventus.

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Speciale Sportlover: la top 11 della giornata di Serie A

Ben ritrovati con il nostro appuntamento settimanale: la top 11 della giornata di Serie A. Oggetto della nostra analisi sarà la 28esima di giornata del campionato italiano. Vi mostreremo la formazione tipo di questo turno della Serie A adottando come sempre il modulo 3-4-3. Anche anche oggi non mancano le sorprese. Non vedrete solamente campioni affermati, ma anche giovani e meno giovani che stanno disputando un campionato di altissimo livello. La giornata appena trascorsa è stata piena di colpi di scena ed emozioni, sta a noi raccontarvela attraverso il nostro undici ideale. Buon divertimento.

Portieri:

Christian Puggioni: protagonista asoluto della giornata di campionato. Simbolo della classe operaia in paradiso. Il portiere ex Reggina effettua un vero e proprio colpo di stato. Spodesta il re di Napoli, El Matador Cavani, e si prende lo scettro di imperatore di questo turno di serie A. Pare un rigore al giocatore uruguaiano ed esegue una serie di interventi prodigiosi. La favola Chievo passa attraverso giocatori come lui. Umili mestieranti che si diventano protagonisti partendo dal basso. Complimenti.

Difensori:

Cristian Zapata: partito in sordina e tra le ironie degli addetti ai lavori, Cristian Zapata ha continuato a lavorare tra la fiducia di Massimiliano Allegri. Adesso è riuscito a ritagliarsi un posto al sole. Perfetto contro il Barcellona, impeccabile anche contro il Genoa. Serve anche un assist prezioso a Balotelli. Il colombiano è l’emblema della rinascita rossonera. Tocca a lui adesso spiccare il volo definitivo e trovare quella continuità di rendimento che gli permetta di essere tra i migliori difensori del nostro campionato.

Andrea Barzagli: difficile non inserirlo in una formazione tipo. Impenetrabile come pochi, dimostra un’intelligenza tattica impressionante. Scontrarsi con lui è come farlo con un muro di gomma. Gomez non vede mai la palla, oscurato dal possente difensore bianconero. Andrea Barzagli si ripropone su livelli altissimi dopo la splendida stagione tricolore. Speriamo di rivederlo ancora in queste condizioni ai mondiali in Brasile.

Boukary Dramè: è un siluro il tiro con il quale ha steso il Napoli. Ama fare vittime illustri come accadde con la Juve lo scorso anno. Un po’ indisciplinato tatticamente ed incostante. Le sue qualità sono però fuori discussione. Grande corsa e ottimo tiro dalla distanza. Dramè è un terzino sinistro al quale piace farsi vedere in zona offensiva. Spesso e volentieri è un’arma in più per il Chievo di Corini. Rappresenta l’ennesima scoperta del direttore sportivo Sartori.

Centrocampisti:

Victor Ibarbo: era da un po’ di tempo che non sentivamo parlare di lui. Dopo l’exploit della scorsa stagione era apparso un po’ in ombra in questa annata. Ma ecco che all’improvviso, con la velocità che lo caratterizza, si avventa sul campionato. Tripletta nel match che vedeva il Cagliari opposto alla Sampdora. Peccato che a vedere le sue imprese ci fossero solo una decina di tifosi, causa inagibilità di Is Arenas. Colombian power.

Emanuele Giaccherini: uomo della provvidenza e dello scudetto. Questa è l’immagine che si è cucito addosso Emanuele Giaccherini grazie al gol contro il Catania. Conte lo esalta sempre pubblicamente, da due anni a questa parte. È senza dubbio l’uomo simbolo di questa Juventus operaia. Tanto lavoro, tanta dedizione e risultati che arrivano sempre e comunque. Dalla C al tricolore, una storia fiabesca che ha come protagonista un uomo comune, un giocatore umile dal destino già scritto.

Gaetano D’Agostino: avrebbe dovuto calcare ben altri palcoscenici. Per lui si parlava di Juventus e Real Madrid. Non se ne fece nulla, ma le opportunità nella carriera di un giocatore vanno e vengono. Adesso si è dovuto rimboccare le maniche e rimettersi in discussione. Prima l’esperienza a Siena, ora a Pescara. Lo splendido gol messo a segno contro l’Atalanta non è bastato per evitare la sconfitta ai suoi. Il suo sinistro esplosivo merita però un posto nella nostra top 11.

Erik Lamela: quando lo vedi giocare non puoi non rimanere incantato dalle movenze e dal talento di El Coco. Erik Lamela trae beneficio dal calcio offensivo della Roma. Ha ancora tanti margini di crescita ma in prospettiva è senza dubbio uno deii talenti più fulgidi del nostro calcio. Il City lo corteggia, la Roma degli americani se lo tiene stretto. Al potere la fantasia e il bambinone argentino ne ha da vendere.

Attaccanti:

German Denis: El tanque in tutto il suo splendore. Ha avuto momenti difficili German Denis. La piazza lo ha messo in discussione. Si parlava persino di un addio nel mercato di gennaio. Il Palermo su tutti si è fatto avanti. Ma l’amore per l’Atalanta e Bergamo era troppo forte. Denis è rimasto e da buon argentino si è rimesso sotto a lavorare fino alla data della rinascita. Doppietta nella sfida contro il Pescara e salvezza ipotecata per gli orobici. El tanque è tornato, possono dormire sogni tranquilli Colantuono e i tifosi dell’Atalanta.

Amauri Carvalho de Oliveira: non lo ricordavamo così dai tempi di Palermo. Amauri ha manifestato tutta la sua potenza nel match contro il Torino. Evidentemente porta bene al brasiliano la sfida contro i granata. Già con la maglia della Juve aveva segnato un gol decisivo nel derby. Certo, se avesse giocato a questi livelli anche tra le fila bianconere, i tifosi juventini lo ricorderebbero con ben altra nostaglia. In realtà Amauri si è perso nei meandri dei suoi infortuni, salvo poi ritrovarsi negli ultimi mesi con la maglia del Parma. Che sia la rinascita definitiva o una luce ad intermittenza?

Alberto Gilardino: bomber come pochi in Italia. È l’eroe di San Siro. Con il suo gol ha permesso al suo Bologna di battere l’Inter sul suo campo. Non che sia un’impresa storica, vista l’Inter degli ultimi mesi, certamente, però, rimane una vittoria dal grande prestigio. Sono anche tre punti fondamentali in chiave salvezza. Gila segna sempre a modo suo. Come il buon vecchio Inzaghi scatta sul filo del fuorigioco e davanti al portiere raramente sbaglia. Vero e proprio bomber di categoria.

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Cinema & Sport: Febbre a 90, come far accettare un malato di calcio ad una donna

Un’ antichissima diatriba vede contrapposto il malato di calcio e la sua fidanzata. Lui è ossessionato dal pallone, dalla vittoria della sua squadra. La domenica non  lavora e non va al parco. C’è la partita, il campionato di calcio e basta questo a distrarlo, ad appiattire i suoi discorsi, a rallegrare o rattristare il giorno del Signore. Si va allo stadio (oggi con meno frequenza) o ci si piazza davanti al televisore a patire, a bestemmiare, nella speranza dei tre punti. Lei sopporta, non capisce ed urla. Vorrebbe più attenzione e maturità.

In sostanza il film Febbre a 90, tratto dall’ omonimo libro di Nick Hornby, si concentra su tutto questo ed alla fine, senza assolvere il pallonaro, interpretato da un irriverente Colin Firth, lo trasforma in un essere più amabile e simpatico. In profondità, il film di David Evans, è un piccolo breviario capace di aiutare le innamorate a capire (non completamente) il morbo che affligge i maschi.

Un po’ documentaristico, scorrono spesso le immagine di repertorio dell’ Arsenal stagione 88/89 e tanto divertente, è consigliabile soprattutto (ma non esclusivamente) ad un pubblico femminile. Il protagonista racconta la sua avventura sportiva dalla tenerà età (la squadra del cuore era l’unico contatto fra lui e suo papà, divorziato dalla madre) fino all’ età adulta, quella in cui è docente di letteratura ed ha una relazione impegnativa con una collega. Il calcio non è lodato, ma offerto al mondo con i suoi pro e i suoi contro. E’ un’ossessione, qualcosa che ti prende alla pancia scatenando istinti bassi e gesti irrazionali. Spassosi e imperdibili i monologhi di Firth.

Del malato si conosce la diagnosi e non la cura. Sta alla fidanzata decidere se stargli vicino o scegliersi un altro passatempo.

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